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Il silenzio del corpo

10 ottobre 2019

Il silenzio del corpo

Il digiuno e la coscienza del sangue

Secondo la concezione psicosomatica integrale non esiste separazione fra la nostra vita psichica e il “senso” di essa, ovvero la sua “azione”, perché il pensiero altro non è che la traduzione cerebrale consapevole di un’attività inconscia di organi interni, ispirati da un’intelligenza innata o istinto filogenetico, la cui funzione è sostanzialmente quella di permettere la sopravvivenza della forma umana come integrità di coscienza in evoluzione.
Ciò significa che se noi consideriamo ogni attività dell’uomo come la manifestazione formale e concreta di una corrente ispiratrice psichica che la direziona, del pari dovremmo supporre una concordanza funzionale fra la vita psichica cosciente e tutto quel complesso fisiologico degli organi interni, mossi da un dinamismo energetico volto esclusivamente a tenere informata la totalità della “forma” sulle variazioni omeostatiche dell’ambiente.
Date queste premesse concettuali ci potremmo chiedere, in una prospettiva psicosomatica, che valore attribuire ad alcune pratiche corporee, come il digiuno, da sempre indicate nei rituali medico-religiosi tradizionali come il simbolo purificatorio iniziale per permettere il contatto con la divinità. Si tratta, come vuole una certa corrente antropologica strutturalista, di considerare il digiuno come l’espressione di una necessità salutistica del corpo, camuffata da risvolti magico-religiosi, al fine di preservare l’integrità del gruppo?
O non piuttosto ci rimanda ad un significato più nascosto, per cui ciò che deve essere conosciuto dalla coscienza digiunante è qualche cosa di inafferrabile all’esperienza ordinaria? La questione così posta è molto complessa e implicherebbe un’analisi attenta di ciò che accade fisiologicamente durante il digiuno, onde risalire al senso analogico dello stesso e di lì al suo valore anagogico. Innanzi tutto quando si parla di “digiuno” secondo la scienza tradizionale si vuole indicare una condizione fisico psichica ben precisa, tale da escludere l’assunzione di certi cibi animali come pure l’uso di bevande eccitanti. I cibi permessi sono in genere quelli di origine vegetale, come pure quelli di provenienza animale, alla condizione che questi ultimi derivino da animali vivi (latte, uova, ecc.). Vengono tassativamente esclusi tutti i tipi di carne e di pesce, come peraltro ogni cibo non naturale.
Quale può essere il significato di questo rigoroso regime, che in misura più o meno variabile si ritrova in tutti i rituali religiosi? Evidentemente esso si rifà a una fisiologia non ancora adeguatamente indagata dalla nostra scienza medica, che affonda le sue radici concettuali in una realtà psicosomatica integrale in cui non esiste separazione fra il “senso” psicologico di una funzione organica e il suo linguaggio biochimico.
Con il digiuno rituale - che fra l’altro veniva effettuato in periodi cosmici molto precisi e in stretta corrispondenza con il mutamento delle energie sottili del corpo umano - la scienza tradizionale si riproponeva di agire sullo psicosoma dell’uomo onde prepararlo a una trasformazione profonda della propria struttura psicofisiologica in grado di permettergli l’accesso ad esperienze illuminanti. Attraverso il digiuno, accompagnato in genere da altre prescrizioni rituali come la castità, le abluzioni sacre, ecc., si voleva indurre una graduale e progressiva trasformazione della costituzione biochimica del sangue per assicurare al digiunante un accesso mirato alle profondità inconsce della propria filogenesi. Con l’assunzione continua di certi cibi, ed evitandone accuratamente altri, il digiunante attivava in sé l’esperienza “funzionale” e “fisiologica” nascosta nel simbolo concreto e “vitale” che assumeva. L’effetto che ne derivava era quello di permettere una coscienza “diretta” della cosa, perché piano piano si diventava la “cosa” stessa.
Il digiuno dunque è volto a trasformare psicosomaticamente il sangue onde ottenere una condizione esistenziale e soggettiva affatto particolare, che permette una conoscenza più profondamente funzionale dei simboli energetici della vita. Per conoscere la Vita però bisogna progressivamente trasformare il proprio psicosoma in ricettacolo di vita, escludendo accuratamente tutto ciò che in misura più o meno variabile è carico di sentimenti o di esperienze di morte; in questa prospettiva gli ebrei accuratamente eliminavano dalla carne di cui si alimentavano ogni traccia di sangue, perché le emozioni dell’animale in agonia venivano condensate nel suo tessuto ematico e di lì potevano essere trasferite all’uomo che se ne cibava. Il digiuno è la prima condizione indispensabile a ogni vera purificazione; questa però non va intesa come una mortificazione del corpo, volta a spegnere il lancio istintivo di una ‘‘carne’’ vissuta come peccaminosa, ma rappresenta la premessa operativa per l’accensione di quel “fuoco”, libidico interiore necessario a rendere vitalmente agite le forze primigenie del Sé.
Fra l’altro la parola purificazione, cabalisticamente modificata rispetto all’originale latino, significa «pur in me facio». Pur è la trasformazione del radicale caldaico pir = fuoco, e a sua volta pir stava ad indicare la fascina di legno che bruciava, da cui si sollevava un soffio caldo, l’Anemos dei greci, che si spandeva nell’aria. Pir è dunque lo spirito in azione, mentre l’Anemos-anima è la sua manifestazione visibile.
Diventa ovvio a questo punto comprendere come il digiuno purificatore rappresenti un potente mezzo psicosomatico per accedere alle profondità del Sé. Attraverso l’eliminazione di certi cibi a favore di altri assunti in ben precisi periodi astronomici, il corpo umano e dunque la sua coscienza sono impegnati ad accordarsi sui ritmi ancestrali, seppelliti nelle sabbie filogenetiche delle esperienze primigenie, per rivelarli in modo comprensibile alla psiche, in immagini e “suoni” conosciuti all’esperienza ordinaria di essa.
Con il digiuno il sangue - ovvero la concretizzazione psicosomatica della libido - si ripulisce via via delle scorie accidentali assunte dal mondo esterno, e in quanto veicolo energetico e nutritivo di tutto lo psicosoma, prepara la mente all’ascolto delle “risonanze” interne non più disturbate Il nei loro ritmi da “interferenze” estranee alla loro natura. In questo senso il digiuno può essere inteso come “silenzio” del corpo: attraverso tale pratica purificatrice è impedita alla mente la percezione di “presenze” estranee alla natura originaria dello psicosoma, e con il silenzio dei “rumori” esterni in esso evocati, è possibile accedere all’ascolto dei “suoni puri” che sul piano psicosomatico, rappresentano la percezione intuitiva dei corrispettivi fatti fisiologici.
Questo è l’antico significato del silenzio, imposto da Pitagora e prima ancora di lui dagli Egizi a tutti coloro che venivano invitati ad entrare nel tempio della conoscenza.
Con il silenzio si invitava il meditante a ripulire delle proprie scorie proiettive mentali le impressioni soggettive sul sangue, onde permettere alla psiche, nutrita dal tessuto ematico, di accede re in modo più immediato alla vita inconscia degli organi, senza incontrare gli ostacoli emotivi instillati dall’educazione o dalle abitudini apprese. Nel silenzio della parola e più ancora del pensiero tutto il sangue gradualmente si modificava, e con lui la psiche stessa che diventava più sensibile alle proiezioni concrete biochimiche dei messaggi d’organo, finalmente resi accessibili nel loro significato vitale e filogenetico.
In questa prospettiva di psicosomatica integrale anche il digiuno opera con lo stesso meccanismo, seppur agendo su di un piano diverso, perché mentre il “silenzio” rappresenta una sorta di digiuno rivolto alla psiche è ovvio che per quanto riguarda il corpo la pratica da eseguire rappresenta l’analogia funzionale corrispondente a un livello fisiologico più materializzato.

Articolo tratto da appunti del Dott. Diego Frigoli, a cura della Dr.ssa Alessandra Monti, psicoterapeuta ANEB