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La Trappola delle emozioni

15 aprile 2021

La Trappola delle emozioni

Dal caso Phineas Gage (1848) alla terza guerra (2048).

di Roberta Pelachin Giorello

 

Recensione a cura di Costanza Ratti

“L’immaginazione morale viene svegliata con i grandi dilemmi… dobbiamo essere capaci di immaginare il male, e ciò che il male potrebbe fare all’anima” (Diego Frigoli).

Questa è una delle bellissime citazioni che punteggiano il romanzo di Roberta Pelachin Giorello, La trappola delle emozioni. Dal caso Phineas Gage (1848) alla terza guerra (2048), appena uscito per Mimesis, un connubio assai riuscito di fiction e poesia, in cui la scrittrice, moglie del filosofo milanese Giulio Giorello e autrice di numerose pubblicazioni di saggistica e poesia, mette in scena un futuro distopico per condurre il lettore al fondo di quel male oscuro all’anima che nasce dalla lacerazione tra il sentire e il pensare. Una divaricazione di cui Phineas Gage, vittima di un incidente che gli trapassò il cranio e gli distrusse il lobo orbitofrontale dove ha sede un raccordo tra emozioni, pensieri e azioni, fu il primo caso emblematico, con tutte le conseguenze drammatiche che ne derivarono sul suo carattere.

Come altri bei libri di fantascienza come “La Strada” di Mc Carthy, il romanzo di Roberta Pelachin Giorello è ambientato in uno scenario post-bellico in cui un’esplosione nucleare, “il grande evento”, ha distrutto pressoché ogni cosa lasciando i superstiti, “gli irradiati”, nella condizione di procacciarsi cibo e sostentamento con tutti i mezzi che hanno a disposizione. Mentre fuori impazza la guerra per la sopravvivenza, in un Centro di ricerca frequentato dalle migliori menti del pianeta sopravvissute e reclutate da un organismo chiamato “Sistema che è tutti i sistemi”, vige un’atmosfera ben diversa. Qui ogni cosa sembra scorrere in maniera precisa, efficiente e perfetta; ogni ricercatore è dotato di una camera privata e di assistenti gentili e affascinanti che si premurano di soddisfare ogni loro esigenza, ogni appuntamento della giornata è scandito da un ritmo prestabilito e calcolato, e voci che impartiscono indicazioni e ordini arrivano puntualmente da altoparlanti posizionati in tutta la struttura, come diramate ovunque sono telecamere di sorveglianza e guardie; laboratori dotati delle migliori tecnologie servono per fare esperimenti su cavie umane catturate tra i pochi sopravvissuti al di fuori, cibi raffinati vengono serviti alla mensa del centro mentre una piccola insubordinazione viene punita con la “soppressione”. Un luogo dunque in cui rimbalzano contraddizioni estreme tra ciò che sembra, l’efficienza e la protezione, e ciò che è, la sospensione della consapevolezza emotiva e morale. Un altro genere di male, molto più nascosto e infido di quello che imperversa fuori.

E’ tra queste mura protette e controllate che vive il protagonista della storia: il neuroscienziato David Dihe, un mister Hide (anagramma di Dihe) solo parzialmente, poiché, dietro alla patina di indifferenza e cinismo che ama mostrare con i colleghi, egli nasconde anche un animo sensibile, dolente, attento e riflessivo che si dischiude progressivamente nel corso del romanzo anche grazie alle relazioni con altri colleghi e colleghe del Centro. David è tra coloro “che son sospesi” poiché una ferita antica, non rimarginata, giace al fondo della sua psiche impedendogli di sentirsi pienamente vivo e lasciandolo con l’impressione inquieta, quanto inaccurata, d’essere senz’anima, proprio come il sole nero che sognava quando era bambino. Finché…

Finché nel limbo immoto non accade l’imprevedibile, l’inatteso: Eléne, una giovane ragazza Asperger usata come cavia dal Centro riesce inspiegabilmente a eludere la sorveglianza e a fuggire. La storia inizia qui, con la fuga che sfida l’ordine costituito, scardina certezze, sovverte la routine, svela il male nascosto in quell’isola apparentemente protetta e infine risveglia in altri personaggi un simile anelito alla libertà. È interessante che la goccia che fa traboccare il vaso e mette in moto l’intreccio venga dalla figura più giovane, fragile, vulnerabile, “diversa”, dal quel piccolo mondo sensibile da cui origina ogni moto vitale, spontaneo della psiche.

A pensarci bene lo scenario distopico descritto dalla scrittrice dove i personaggi si dibattono tra due pericoli ugualmente rischiosi, il mondo selvaggio fuori dove non vige nessuna regola e il mondo iper-controllato del Centro, è molto simile alla configurazione della psiche traumatizzata, dove il trauma (unico o ripetuto, cumulativo), proprio come il “grande evento” nella storia, divide tra un prima e un dopo, spezza la continuità e l’integrazione della vita psichica frammentando il mondo in due realtà: una caotica e disregolata figlia dell’esperienza drammatica reale e una protetta e iper-controllata, prodotto della difesa estrema messa in campo dal Sé. E’ stato Donald Kalsched, psicologo analista junghiano, a penetrare con mente lucida i fantasmi e le fantasie che popolano “Il mondo interiore del trauma” (2013) e a mettere in luce come il sistema di autocura che si innesca a fronte della minaccia intollerabile per il soggetto, con l’isolamento di parti ferite come protezione estrema dalla sofferenza, alla lunga, divenga proprio quella prigione dalla quale l’io non può più attingere alla ricchezza e alla complessità della vita emotiva, né confrontarsi con “l’influsso potenzialmente correttivo della realtà” (2013, p. 60). “Ne risulta un ambiente interiore dove l’aggressione verso il proprio sé bisognoso è una costante. L’attacco interno diventa quello che Bion (1959) chiamava attacco interno al legame e le energie aggressive che imperversano nella psiche la dividono allo scopo di impedire all’io di sentire la sua stessa sofferenza” (2013, pp. 58, 59).

Ecco allora che il Centro dove un demonico Mr. Smith (non a caso forse dotato del più diffuso e banale dei cognomi) comanda in maniera tirannica e con la paura, disponendo la sperimentazione sugli individui privati dell’umanità e punendo severamente ogni debolezza dei suoi ricercatori, è l’esito più nefasto della negazione individuale e collettiva dell’anima, della cui testimonianza il Novecento ci ha largamente e tragicamente fornito. Qui traspare il risvolto sociale-filosofico del romanzo di Roberta Pelachin dove il radicamento consapevole nel passato dell’umanità diviene quell’àncora socialmente necessaria per non perdere la propria identità d’anima, e anzi, il terreno su cui farla crescere con sua la vitalità creativa.

Un analogo conflitto si svolge nel microcosmo della psiche individuale di David che, proprio come il Davide biblico contro Golia, s’avventura a guardare i suoi demoni e le sue paure e confida a sé stesso: “Insidiosi inganni di un io divenuto nel tempo sempre più sconfinato. Voleva difendermi dal dolore del mondo, all’inizio. Divenne troppo potente, troppo sicuro di sé. Solo lui si sarebbe occupato del mio bene. Mi avrebbe protetto, allontanando al momento opportuno la sofferenza, distanziando ogni affetto, ogni amico. Ogni donna. Avrebbe decretato la fine. Recideva ogni legame, algido e spietato. Aveva sempre trovato modi crudi per farlo. Soltanto lui mi avrebbe liberato dalle pene: lui sapeva. Depurava ogni cosa: sogni, fantasie, desideri… Mi spegnevo piano piano. Spossato, remissivo. Trascorrevano gli anni e lui cresceva. Voleva difendermi, e conosceva soltanto quel modo. Così poco alla volta rimasero solo spettri. Nessun corpo vivo, solo silenzio. Il mondo non mi avrebbe ferito. Lui non lo avrebbe permesso. Non comprendevo allora. Soltanto un malessere fondo si infiltrava nelle notti insonni. Si accalcava discontinuo, nel centro del petto” (p. 290).

Una descrizione interna così accurata dei meccanismi psichici che proteggono dalla minaccia di una ri-traumatizzazione sottraendo la sensibilità ferita al confronto con la vitalità trasformativa è davvero preziosa e in questo vi è tutto il potere psicologico del romanzo introspettivo: far parlare il dolore, poter dire il male e, per chi legge, poterlo ascoltare già un po’ riordinato e masticato dalla sensibilità particolare dello scrittore. Molti sono i personaggi e i volti, le sofferenze e le risorse individuali che prendono voce nel testo con uno sguardo attento che denota la curiosità e la cura della scrittrice per i tanti volti dell’umano, maschili e femminili, forti e fragili nella loro intrinseca diversità.

Se non dicessi che il romanzo, nonostante i temi seri e profondi che tocca, le incursioni filosofiche e scientifiche, non sia anche leggero, spiritoso, amabile, come il vino novello, trascurerei uno dei fili della trama. Roberta Pelachin Giorello non manca di seguire con indomita lucidità l’invito a immaginare il male possibile e lo fa con la delicatezza di una scrittura lieve, a tratti poetica, a tratti filosofica, con un taglio spiccatamente femminile dove sono i dialoghi tra i personaggi, le loro relazioni umane e affettive, l’ironia che non manca anche nei passaggi più bui, ad essere il cuore dell’azione.

Il finale non posso svelarlo, ma quel riferimento al ’48 nel titolo è già un indizio: le emozioni sono in o una trappola solo quando non sono aperte, condivise e orientate al mondo, e la libertà tanto auspicata dai protagonisti si realizza proprio attraverso una messa in relazione, nel passato e nel presente, dei loro vissuti. E come la piccola Eléne conserva, accanto alle ferite, un coraggio inaspettato che si radica nei ricordi dei suoi affetti e si accrescerà attraverso nuovi incontri, così il cinico David, specchiandosi nelle esperienze di altri, potrà guardare le sue ombre e riscoprire ciò che la donna amata vide in lui un giorno: “Sai cosa mi ha fatto innamorare di te? (…) La tua anima buona …” (p. 293).

Il futuro che da ciò principia è l’inizio di una nuova storia…

 

 

Autore: Roberta Pelachin Giorello, filosofa. Progetti su biologia, etologia, neuroscienze. Ha pubblicato: Utopia, distopia. Quando la Scienza diventa fantascienza (2009), Lettera a Charles Darwin. Caro Charles ti scrivo in questa sera svagata d’estate… (2010). Racconti: La gabbia di Doralice (2010), Il terzo cerchio (2010), Architetto d’interni (2011, La cavia (2012), La fiamma della (Co)scienza (2014), Passioni inquiete o dell’Amore (2015), Tre fiabe sulla scienza (2017) e, con Stefano Tonelli, Immagini e Canti (2018).

 

Recensione a cura di Costanza Ratti: Laureata in lingue orientali e in psicologia, poi dottore di ricerca in antropologia ed epistemologia della complessità, si è specializzata in psicoterapia presso l’Istituto Aneb. Lavora come psicologa e psicoterapeuta presso Fondazione Esperia a Milano e collabora con l’Associazione Aneb. Ha pubblicato: Il sacrificio nell’Israele antico (2017) e “Le nozze delle Vergini (Mt 25,1-13). Corpo, psiche e spirito del femminile in una prospettiva ecobiopsicologica” (2020).

 

Testi citati:

Pelachin Giorello R., La trappola delle emozioni. Dal caso Phineas Gage (1848) alla Terza Guerra (2048), Mimesis Edizioni Milano, 2021.

Kalsched D., Il mondo interiore del trauma, Moretti e Vitali, Bergamo, 2013.

Mc Carthy C., La strada, Einaudi, Torino, 2014